Il presidente dell’Ordine degli avvocati Giuseppe Conti.
Un avvocato di lungo corso, che ha fatto del garbo e della misura la sua cifra stilistica. Un cursus honorum iniziato nel 1980, con l’avvio della professione, durante il quale è stato vicepresidente dell’Unione camere penali, presidente della Camera penale di Sassari fino a diventare, lo scorso anno, presidente del Consiglio dell’Ordine forense di Sassari. Giuseppe Conti ha visto da vicino, forse più di altri, i cambiamenti del sistema giudiziario e la trasformazione del lavoro di avvocato. Ma guai a parlare di crisi della professione.
“Guardi, secondo me parlare di crisi della professione è un po’ improprio – spiega Conti -. Il punto è che si tratta di una conseguenza della crisi di sistema. Abbiamo sfornato laureati in giurisprudenza in quantità industriale. Giusta la convinzione storica che quel tipo di studi aprisse molte più porte al mondo del lavoro, ma il problema è stato la fine della stagione delle grandi assunzioni in concorsi pubblici, banche, compagnie assicurative, eccetera. Da qui un numero esorbitante di avvocati in un mercato asfittico, come quello sardo, che non può assorbirli. Non scordiamo, infine, la necessità di un minimo di specializzazione settoriale, da ottenere nel tempo, per garantire un buon lavoro”.
Com’è cambiato in questi anni il rapporto con la magistratura?
“Io ho sempre creduto che gli operatori della macchina della giustizia siano tre: magistrati, personale amministrativo, che è essenziale, e gli avvocati. Quest’ultima non è certo una bestemmia. Siamo lo strumento di difesa per il singolo, il quale non ha elementi tecnici per tutelarsi dinanzi al potentissimo sistema. Purtroppo, però, ci tocca fare i conti con una certa autoreferenzialità della magistratura. Abbiamo la volontà di interloquire, perché lo facciamo in vece dei cittadini che rappresentiamo di volta in volta, e spesso troviamo una barriera che tende a volerci lasciar fuori. Perché non possiamo divenire rilevanti, ad esempio, nella valutazione per l’assegnazione degli uffici direttivi? Ciò non toglie, e sono sincero, che la stragrande maggioranza dei magistrati sia comunque capace e lavori in modo serio. Ma il problema sussiste. Tener fuori dal dialogo una componente essenziale della giustizia, qual è la nostra, è un metodo che non può continuare a perpetrarsi. A proposito di riforme, io inizierei a inserire un riconoscimento chiaro e preciso del ruolo del difensore in Costituzione”.
Quali altre riforme sono da voi richieste per rendere il sistema più efficiente?
“Partiamo dal problema principale, condiviso nell’ambito sia civile sia penale: la durata mortale dei processi e l’incredibile arretrato. Una giustizia non garantita in tempi ragionevoli è un problema per la stessa democrazia, oltre che per lo sviluppo economico. Non si può negare che la cronica carenza di personale sia una causa di ciò, perché ogni volta si tende a fare riforme a costo zero e non si vuole investire su un giusto incremento dell’organico complessivo. Un buon inizio sarebbe, quindi, correggere questa mentalità. Sono sempre favorevole a discutere le novità, purché non si travolgano mai le garanzie basilari dell’uomo. In merito, devo evidenziare che l’ultimo terribile periodo di pandemia ci ha portato un’accelerazione senza pari nell’utilizzo delle nuove tecnologie. Si auspica, quindi, che da qui innanzi si possa proseguire su questo percorso per superare l’era del cartaceo e l’affollamento dei corridoi”.
Visto che cita il periodo della pandemia, come lo avete vissuto nei rapporti istituzionali?
“Le posso assicurare che vi è stato un problema iniziale legato al coordinamento, per quanto concerne la serie di Dpcm emessi a tamburo battente nei primi concitati momenti. La sezione distaccata della Corte d’Appello di Sassari gestisce un territorio vastissimo. Era naturalmente difficile orientarsi. Per fortuna, da un lato, i capi degli uffici erano sollecitati dai provvedimenti governativi a collaborare con l’avvocatura, dall’altro, loro stessi hanno mostrato una propensione in tal senso. Ciò ha consentito di lavorare bene in un secondo momento, di armonizzarsi adeguatamente con le novità intervenute. Ma ho ancora qualcosa da dire sulle riforme che suggeriamo”.
Ci dica tutto.
“Prima o poi sarà indispensabile rivedere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, oggi sostanziale discrezionalità mascherata da obbligatorietà. Non come ai livelli del sistema nordamericano, ma in ogni caso si dovrà rimodulare. Infatti, qualsiasi criterio suggerito per fissare, in concreto, le precedenze nell’istruzione dei procedimenti, altro non farebbe che condannare definitivamente un’enorme mole di processi alla prescrizione. Ecco, la questione della prescrizione è una di quelle che mi fanno venire il mal di testa, davvero. Siccome è scandaloso che molti processi, oltre centomila l’anno, si concludano con la prescrizione, la soluzione individuata è la riduzione dell’applicazione di questo istituto. Con il rischio, poi, che un imputato muoia senza nemmeno sentire mai una pronuncia del giudice”.
Per recuperare la fiducia dell’opinione pubblica, servono le riforme, ma non solo, comunque…
“Non c’è dubbio che una riforma complessiva seria possa far recuperare nelle persone una buona fiducia nella giustizia. Ma un cittadino comune non può nemmeno più credere nel fatto che le riforme ci saranno, se non recuperiamo prima di tutto la credibilità di fondo del sistema stesso, soprattutto davanti ai giovani. Ci sono dei limiti che ogni uomo deve rispettare per garantire una buona gestione generale, un’etica accettabile da non calpestare per non vivere in una sorta di giungla”.