Stupri e insulti sessisti, le donne hanno diritto di uscire anche nude

Il caso degli insulti durante la giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Criticare una donna per come si veste è violenza di genere.

Gli insulti sessisti rivolti all’assessora Desirée Manca proprio in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, ieri 25 novembre, sono l’ennesima e desolante prova che in Italia, e anche a Sassari, persiste una tacita accettazione della violenza maschile. L’episodio è emblematico. Mentre usciva la notizia della scorta a causa delle minacce ricevute, l’attenzione dell’opinione pubblica sui social si è pericolosamente spostata (ancora una volta!) sul suo abbigliamento.

Questo meccanismo suggerisce un’idea aberrante che gli insulti sessisti o persino la violenza fisica siano in qualche modo giustificati o “permessi” se l’abito indossato non è ritenuto “consono”. Ma a quale metro di giudizio dobbiamo sottostare?

Noi donne siamo costantemente intrappolate in stereotipi di genere che ne definiscono l’immagine pubblica. Il corpo femminile, solo se oggettizzato e mercificato, sembra essere concesso alla critica altrui. È intollerabile, invece, che una donna si affranchi da questo bias e decida di gestire liberamente la propria immagine. Questo diventa vero soprattutto quando ricopre un ruolo di potere, non subalterno: il corpo femminile è legittimato solo se reso oggetto di desiderio. Non sorprende, infatti, che l’abbigliamento femminile susciti maggiore scandalo se indossato da politiche, artiste o figure di rilievo pubblico, come il recente caso di Elodie, finita nel mirino per aver allontanato un fotografo troppo vicino a un suo concerto.

Purtroppo, questo pregiudizio non si ferma ai social o ai dibattiti politici, ma si insinua persino nelle aule dei tribunali. Assistiamo, ancora oggi, a un vero e proprio processo contro le donne vittime di violenza, costrette a doversi giustificare di fronte alla corte per come erano vestite. L’abbigliamento femminile viene così considerato in un pericoloso “lasciapassare” per ogni violenza o insulto. Se a un uomo vittima non viene mai contestato il vestiario, per noi donne il copione cambia drasticamente. Come se il corpo non fosse nostro: “Cosa hai indossato per farlo ingelosire e picchiarti?”.”Indossavi la minigonna, non ti lamentare se ti molestano.” “Se ti insulta sui social la colpa è tua che pubblichi foto.”

Questa serie di giustificazioni, a volte persino autoimposte dalle donne stesse, serve spesso come illusoria garanzia che “a loro non succederà mai” se si mantiene un basso profilo. Ma sottomettersi e rimanere un gradino sotto l’uomo non porta alcun vantaggio reale, anzi. La cosiddetta “galanteria”, esercitata con gesti protettivi, è innocua finché rimane un breve gioco di seduzione, poiché dà una sensazione effimera di sicurezza, che a lungo andare priva del fondamentale diritto all’autodeterminazione, anche economica.

Il tasso di occupazione femminile in Italia è tra i più bassi d’Europa e del mondo. A Sassari, questa percentuale è persino inferiore alla media nazionale. Eppure, è cruciale ribadirlo: l’autonomia economica, garantita da un proprio reddito, è la via d’uscita più solida e fondamentale per sottrarsi alla violenza e alla manipolazione del partner o del padre. Per guadagnarsi il ”pane” è necessario però allontanarsi dal focolare domestico, dunque esporsi e occupare spazi pubblici. Più si ha potere e più è necessario esporsi.

Le donne non acquisiranno mai libertà finché occupare uno spazio pubblico sarà percepito con riluttanza e delegittimato. Chi ha coraggio di esporsi se le donne vengono punite con la violenza (e se essa è ritenuta accettabile per essersi esposte)? Se ancora si giustificano le violenze per il fatto di essersi allontanate dal focolare domestico, significa che c’è ancora tanta strada da fare per accettare l’indipendenza, anche economica, delle donne. La libertà passa innanzitutto attraverso l’emancipazione, anche mentale, dalle catene imposte.

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