Dai bombardamenti di Kiev all’arrivo a Sassari, l’odissea di Julia e di suo figlio

Julia ha lasciato l’Ucraina bombardata per raggiungere Sassari dopo cinque giorni.

Cinque giorni per lasciare i bombardamenti di Kiev e arrivare a Sassari. Questa l’odissea di Julia Kumilivska che il 26 febbraio è partita dalla capitale ucraina. “Le esplosioni erano continue, soprattutto dalla notte alle 5 del mattino, e sempre più vicine – ci spiega – così ho pensato: Se non partiamo adesso non ci salveremo”.

Con lei Daniele, il figlio sedicenne avuto da un sassarese, e uno zaino col minimo indispensabile preparato dalla madre. “Alla stazione centrale un mare di gente- ricorda – e un solo treno. Tutti litigavano per poter salire. Lottando siamo riusciti a trovare un piccolo spazio dove stare come sardine in scatola”. Julia non ha idea di dove stia andando, lo scopre durante il viaggio: Leopoli. Dieci ore per il trasferimento tutti vissuti col terrore “di venire colpiti dagli aerei russi” e del futuro senza nessuna prospettiva. “A Leopoli abbiamo dormito in una palestra e alle sei del mattino dopo siamo saliti insieme ad altri su un pullmino dove ci hanno chiesto 120 euro per fare 20 km”.

E fermarsi davanti al fiume di macchine lungo 45 km che punta verso la Polonia in una fuga al rallentatore. “Siamo andati a piedi in mezzo al gelo tra le macchine ferme ma ci aiutavano – e nel dirlo si commuove – i villaggi ucraini lungo il tragitto dandoci da mangiare”. Intanto il cellulare si scarica e il nome del confine che s’avvicina è un mistero: “Non mi interessava, volevo raggiungerlo”. Ci riesce in due tappe, inframezzate dal pernottamento notturno, le voci che raccontano di spari alla frontiera, il freddo che assedia le ossa, e l’arrivo al confine polacco. Qui regna il caos tra autobus presi d’assalto, controlli, risse: “Ho preso il primo mezzo disponibile verso Varsavia” rivela Julia che, dopo centinaia di km, vede la luce in fondo al tunnel: “Il padre di mio figlio è riuscito a contattarci offrendoci ospitalità a Sassari”. Manca l’ultimo miglio però risolto dal destino: “Dopo aver fatto il tampone non sapevamo come raggiungere l’aeroporto di Katowice perché mancavano i taxi. Ne è arrivato uno dal nulla, guidato da un ucraino che non ha voluto soldi. Ci ha detto che quella era l’ultima corsa e che poi sarebbe tornato in patria ad arruolarsi”.

Il 3 marzo la partenza alle quattro del mattino verso Alghero dove l’aereo atterra alle nove. “La mia testa non funzionava più. Pensavo solo a tenere stretti i documenti”. Poi l’ospitalità limitata nel tempo in una casa del centro e il pensiero costante al suo paese e alla madre rimasta a Kiev in un’abitazione comprata con tanti sacrifici da Julia: “Ci sentiamo su Viber, mi dice che i russi stanno distruggendo tutto e non c’è più niente da mangiare”. Ora, dopo giorni, la nebbia della paura si dirada durante la veglia ma ritorna di notte: “Continuo a sognare le bombe e il viaggio sembra non finire mai”. Il figlio vorrebbe tornare a casa per lottare anche se molti suoi amici e coetanei sono scappati: “Il mio popolo deve combattere – afferma Julia – non siamo pecore senza cervello. Putin è un bugiardo, dice che ci sta salvando”. Nel frattempo Julia, esperta di diamanti, prova a cercare un lavoro a Sassari dove ha vissuto fino a tredici anni fa e da dove guarda alla sua patria comunque con speranza: “Credo che vinceremo”.

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